Rivista Anarchica Online


lettere

 

Quadro emergenziale

Negli ultimi due numeri di A è riemerso, sia pure in modo un po’ rapsodico, il tema della prassi politica del movimento anarchico e libertario. Prima, un costruttivo intervento di Luigi Veronelli sulla opportunità di portare le idee libertarie anche dentro la competizione elettorale. L’articolo è stato relegato poco generosamente in fondo alla rubrica delle lettere (pagina 82) e se ciò non fosse bastato, c’era una tiratina d’orecchie a Veronelli nell’editoriale di pagina 4 dai toni vagamente sacerdotali di chi evidentemente considera chiusa la discussione.
Nel numero successivo ha richiamato la mia attenzione, in particolare, la scorribanda dialettica di Andrea Papi, prima con una lunga ma inconcludente riflessione sull’azione politica anarchica e poi con una risposta, di altrettanta o maggiore vaghezza nei contenuti e acerbità nei toni, alla lettera di Dario Sanniti che poneva in modo concreto (certo, approssimativo) una questione politica nella quale, a voler guardar bene, l’emergenza trascende l’utopia: come favorire la percezione collettiva delle idee libertarie e la loro capacità di contribuire al benessere (alla riduzione del malessere) dell’individuo e delle comunità.
Non nascondo che mi ha disturbato l’atteggiamento che mi è parso di cogliere nelle reazioni tra il paternalista e l’infastidito a due utili suggerimenti di tenere aperto e alto il ragionamento sulla partecipazione politica del movimento anarchico e libertario e (aggiungo) socialista oggi.
La sperimentazione continua nel nome della libertà e della giustizia, direi, è altra cosa dalla conservazione tout-court di una sorta di dogma strisciante, frutto di precedenti, discutibili e molto datate verifiche empiriche.
Ora non voglio perdermi in definizioni e distinzioni tra chi è dentro e chi è fuori il movimento: ritengo che la saldatura stia per tutti noi sulla linea di fondo della organizzazione non gerarchica, contro la sopraffazione di pochi e per il libero dispiegarsi delle vite di ognuno e di tutti (confesso, tuttavia, che recentemente ho avuto qualche dubbio sull’adesione ideale di alcuni dei sommi depositari del credo anarchico italiano dei quali ho letto tristemente smarrimenti e dubbi liberisti che mal celavano una tragica confusione teorica prima ancora che pratica).
Se siamo d’accordo sulla necessità prioritaria di operare per una rottura del paradigma gerarchico, «padre» della violenza delle organizzazioni umane (Stato e sue articolazioni, chiesa, famiglia, scuola, lavoro...) e dei loro rapporti con il resto degli esseri viventi, la ricerca pragmatica e in costante evoluzione delle prassi adeguate dovrebbe essere un’ovvietà.
La ricostruzione continua di condizioni non gerarchiche e di potere diffuso (nello spazio e nel tempo) investe ogni contesto umano ed è tanto più urgente quanto più immediati sono gli effetti dannosi di una data organizzazione gerarchica/violenta. In altre parole, se ogni soggetto si adopera nei luoghi che gli sono propri per favorire una trasformazione tendente all’anarchia, esistono luoghi nei quali questo processo «utopico» deve rispondere a un’emergenza e dunque richiede strumenti ispirati a un marcato pragmatismo. Questi luoghi dell’emergenza possono essere la fabbrica che uccide dentro e fuori i suoi stabilimenti (condizioni di lavoro, inquinamento, produzioni pericolose per l’ambiente e/o per i consumatori); il campo nomadi, il centro di detenzione per immigrati o il carcere che violenta l’umanità; un sistema mercantile locale e globale che esalta disparità e sfruttamento tra individui e gruppi; un contratto di lavoro che condanna alla precarietà e alla malattia eccetera; una mobilità che nega il diritto all’aria pulita e alla salute; una scuola che inibisce curiosità e pensiero critico; un esercito e i suoi apparati di morte che accresce il vigore (simbolico e reale) anziché estinguersi e così via.
È con lo sguardo all’emergenza quotidiana – al susseguirsi di morti, di malattie, di catene e di infelicità evitabili – che trovo debole e in certa misura fuorviante la proposta di una «società nella società» ripresa da Andrea Papi: momenti di autorganizzazione collettiva, centri sociali libertari, scuole libertarie e quant’altro che dovrebbero, in sostanza, coltivare e diffondere la «società altra» di cui sarebbero modello. Non sottovaluto il valore di siffatte esperienze, pur notandone sia il rischio avanguardistico sia la tentazione isolazionistica (purtroppo tipica di una diffusa interpretazione velleitaria ed elitaria dell’anarchismo che talora si sostanzia in una prassi autoreferenziale molto poco incisiva tanto sulle emergenze del momento storico quanto sul confronto dialettico della politica di tutti).
I laboratori di sperimentazione anarchica concreta sono senz’altro di utilità sociale, è preziosa Summerhill School come lo sono le comuni che resistono in varie forme nelle campagne italiane; ma ridurli a momento culminante dell’azione politica mi pare segno di grande smarrimento.
Indicare un piccolo opificio autogestito, modello della «società altra», a un operaio d’acciaieria malato di cancro come migliaia d’altri, mi parrebbe davvero pochino: sia in termini di condivisione solidale, sia di contestazione del paradigma gerarchico.
Per fortuna la realtà delle prassi anarchiche – soprattutto di quelle spontanee e inconsapevoli – non è solo questa. Nonostante la repressione e l’autoritarismo, la società è percorsa da innumerevoli dinamiche di presa di coscienza e di aggregazione non gerarchica per rispondere a una qualche emergenza: comitati di base, gruppi di colleghi, sindacalismo libertario, associazioni eccetera.
Se la rete del potere gerarchico e dei suoi punti di forte intensità delle aspirazioni di dominio pervade l’intero corpo sociale, la risposta data dalle vittime non consenzienti è un’azione altrettanto reticolare che si concentra sui nodi dell’autorità ma non tralascia il resto.
In questo quadro mi pare che il contributo del movimento anarchico e libertario, oggi, in una società formalmente democratica, potrebbe essere assai più pregnante attraverso una presenza pressoché sistematica in tutti i luoghi in cui si esercita la violenza del potere gerarchico. E per forza di cose, pena la perpetuazione del sistema contestato, dovrà essere un contributo non solo – come scrive Papi – antiviolento ma intrinsecamente nonviolento nel contesto istituzionale dato per trasformarlo.
È vero che la rete è vasta e che bisogna agire in ogni suo punto e forse è altrettanto vero che – nel medio periodo – una cattiva legge può non farcela a imbrigliare una comunità, tuttavia sarebbe miope non notare che alcuni luoghi del potere determinano conseguenze pressoché immediate per gli esseri umani e l’ecosistema.
E sarebbe miope anche non notare che una legge può favorire – nella complessa dinamica individuo/comunità/autorità – l’eterno processo di avvicinamento all’anarchia piuttosto che reprimerlo brutalmente (con la forza fisica o nei cervelli dei cittadini).
Non sto a dilungarmi oltre, chiudo questa riflessione semplicemente osservando che la potenza delle idee anarchiche e libertarie rischia il corto circuito o l’autoreferenzialità se non si mantiene alta la tensione attorno al ragionamento sulla prassi e sul pragmatismo. E in questo contesto, mi pare che nell’epoca attuale sia fondamentale l’abbandono di ogni tentazione aristocratica, che sia necessario – per rispondere al grido dell’emergenza e insieme rafforzare le fondamenta dell’utopia – «sporcarsi le mani» nei movimenti sociali (certo talvolta contraddittori, spesso inconcludenti, talora anche gerarchici talaltra inconsapevolmente anarchici...) e nei luoghi istituzionali della politica rappresentativa che vogliamo sostituire con quella diretta (l’esperimento dei bilanci partecipativi e altre esperienze più o meno riuscite indicano, se non una vera risposta, l’esistenza di un desiderio individuale e collettivo di camminare oltre il presente).
Se in parlamento o in consiglio regionale si decide del destino immediato (parliamo del presente, di qui e ora) di una, mille o un milione di persone e io posso fare qualche cosa, fosse anche per ridurre il danno, mi pare un dovere etico cercare di esserci. Qui come altrove, per affrontare l’emergenza e seminare l’utopia con prassi di rottura del paradigma consolidato. Se parliamo di un partito, per esempio, sarà un partito senza gerarchia, aperto e assembleare a rotazione continua dei mandati eccetera, un’identità che sta nel presente per superarlo. E l’idea democratica – oggi sottoposta alle sevizie dell’autoritarismo liberale – si può prestare tanto allo sperimentare quanto al filosofare libertario. «Democrazia = governo di tutti. Anarchia = governo di nessuno. Democrazia = Anarchia», scriveva Merlino.
Raccordarsi con la realtà e soprattutto con i suoi aspetti più inquietanti è estremamente complicato. La realtà è complicata e scivolosa. Ma provarci in tutti i modi possibili – dunque nella sperimentazione continua – corrisponde pienamente, nella prassi, allo straordinario bagaglio di idee dell’universo anarchico. Oggi, in giro ci sono, per esempio, alcuni preti e frati che mi sembrano più anarchici di molti eremiti anarchici. Paradossalmente, io, che sono agnostico e profondamente anticlericale, mi sporco volentieri le mani con loro per ridurre la sofferenza umana, contrastare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e favorire la trasformazione/liberazione sociale (anche verso una chiesa libera che non sarebbe più la Chiesa). Più dei preti che ammiccano all’anarchismo, mi spaventano i teorici dell’anarchismo che ammiccano al capitalismo.
Finisco con un breve cenno alla questione nonviolenza. La lettura dell’articolo di Andrea Papi mi lascia intendere che per l’autore la nonviolenza è la rinuncia all’uso della forza nell’azione politica (o in altri contesti). La piccola casa editrice che con non poca fatica cerco di mandare avanti, Nonluoghi, ha come slogan «libri per una cultura critica, libertaria, nonviolenta». Questo, per significare il legame intimo attribuito ai tre elementi. La sequenza non è casuale: critica (presa di coscienza della complessità e malignità del reale), libertaria (assunzione del paradigma non gerarchico quale momento ispiratore di una trasformazione), nonviolenta (insieme condizione e prassi del percorso e dei punti di approdo di ogni sua tappa). Nonviolenza, dunque, come teoria intrinsecamente libertaria (il dominio gerarchico è violenza) e come strumento di lotta: non la semplice assenza dell’uso della forza (delle armi), bensì lo sviluppo e l’adozione di altri metodi per interagire con il reale e tentare di trasformarlo (disobbedienza civile, dialogo con l’avversario, informazione diffusa, mobilitazioni individuali o di gruppo, obiezione di coscienza eccetera).
La conquista nonviolenta e libertaria di una trasformazione umanizzante in un quadro emergenziale rappresenta, per le sue stesse modalità, un approdo sul quale proseguire con minori rischi di involuzione il percorso verso l’utopia.

Zenone Sovilla
(Civezzano)

 

Risposta a Zenone Sovilla

Dal momento che secondo Zenone Sovilla sembra esservi una specie di gerarchia, di cui per altro ci sfugge la logica, pubblichiamo (o si dice releghiamo?) la sua lettera in prima battuta. Abbiamo chiesto al nostro collaboratore Andrea Papi una replica che ci trova del tutto concordi.

Caro signor Sovilla, io non la conosco e leggo qualcosa di suo per la prima volta. Innanzitutto la ringrazio per aver occupato il suo tempo su riflessioni che le sono state suscitate da cose da me scritte, che spaziano e si dilatano mettendo in campo svariati punti e qualche argomentazione. Non le risponderò su ogni cosa da lei sollevata, perché altrimenti mi richiederebbe troppo spazio, mentre mi soffermerò in breve solo su alcuni dei punti che lei ha posto, senza per questo aver la pretesa di essere esaustivo. Ma la polemica, quando è autentica e sentita, è sempre interessante.
Per prima cosa una chiarificazione sulla risposta a Sanniti. Forse lei non ha vissuto le sue parole come le ho vissute io. Ma mi sembrava chiaro, leggendo la sua polemica, che vi fosse un tono tra il saccente, anche se non erudito, e l’arrogante. Del tipo «…ma non avete capito niente…», «…ma non sapete che gli operai, le casalinghe, ecc.», «…adesso vi spiego io cosa fare…» ed altre simili gradevoli facezie, arricchite a un certo punto con l’offesa liquidatoria, tipica dei metodi polemici di staliniana memoria, che in fondo siamo tutti piccolo-borghesi, quindi… Davanti a tale aggressione, che tale è anche se non accompagnata da turpiloquio, mi son divertito ad essere ironico con qualche piacevole punta di sarcasmo. Ora le chiedo: «Perché il Sanniti può usare quell’atteggiamento di linguaggio, mentre Papi, secondo lei, dev’essere sempre e solo carino? Dovrei essere sistematicamente un santo nonviolento che porge d’istinto l’altra guancia?».
Per quanto riguarda il rimprovero alla redazione di A di aver relegato poco generosamente in fondo alla rubrica delle lettere Veronelli, faccio fatica a capire di che cosa rimprovera i compagni della redazione. Qualsiasi redazione, giustamente, da sempre decide la filosofia d’impaginazione in base alle sue scelte. Non l’hanno mica censurato. Se l’avessero ritenuto rilevante l’avrebbero messo in maggior rilievo, come invece da quello che scrive avrebbe fatto lei, che al contrario della redazione di A ritiene fondamentale ciò che Veronelli ha scritto. Legittime entrambe le posizioni. Oppure, caro signor Sovilla, ritiene in realtà che siano legittime solo le sue di posizioni e che debbano diventare un’unità di misura critica capace di stabilire il meglio e il peggio di qualsiasi altra cosa?
Inoltre vorrei farle notare che quando si dà dell’inconcludente a qualcuno, la buona creanza del dibattere richiede che si motivi perché lo è stato, altrimenti risulta soltanto un giudizio liquidatorio che lascia il tempo che trova. Ora mi sembra di aver esposto delle conclusioni, ovviamente non con la pretesa che siano le uniche, anche motivandole. Quindi non capisco dove sia la da lei accusata non concludenza. Oppure, e ci risiamo, siccome ritiene che le sue conclusioni siano le uniche che abbiano senso, allora di conseguenza qualsiasi altra diventa non conclusione, argomentata o no, ed è perciò inconcludente? Ma se è così, perlomeno avrebbe dovuto dichiararlo.
Ed ora veniamo al punto centrale ed incandescente del quale m’interessa veramente discutere. Ripeto, con la consapevolezza che qualche battuta non esaurisce una questione tanto importante. Respingo e respingiamo la scelta elettoralistica, da lei tanto sostenuta, perché non ci piace. E non per un fatto estetico.
Ma perché è del tutto incoerente e contrastante con le proposizioni che distinguono l’essere anarchici.
Innanzitutto vorrei chiarire che ritengo sostanzialmente differente l’andare a votare per qualcuno, cosa che fra l’altro personalmente non condivido affatto, e presentarsi invece come lista a parte con un programma elettorale sedicente anarchico, come mi sembra che lei proponga.
In passato è già successo che, per questioni di tattica politica, degli anarchici abbiano concesso il loro voto. Lo hanno fatto individualmente dei singoli compagni per sostenere persone che ritenevano degne. Ma, per esempio, anche in Spagna nelle elezioni del 1936 la partecipazione al voto fu incentivata sottobanco dalla CNT, la quale ufficialmente fece però una campagna astensionista, per far trionfare le sinistre contro il montante fascismo. Lo riporta Vernon Richards in Insegnamenti della rivoluzione spagnola.
Considerazioni di tattica politica, che si possono condividere o meno, che però smentiscono in pieno, caro signor Sovilla, la sua accusa di essere dogmatici da parte degli anarchici. Se è per questo, e qui vado a memoria quindi mi scuso per eventuali errori, nell’ottocento Fanelli e Friscia, pur essendo anarchici attivi, erano parlamentari. È interessante la motivazione per cui lo erano. Non perché volevano agire per portare la voce anarchica e proletaria in parlamento, del quale continuavano ad avere una considerazione del tutto negativa e contraria, ma perché così potevano viaggiare gratis, a spese del governo, e tenere i contatti tra gruppi e compagni. Un’altra considerazione di tattica politica, che si può condividere o meno, ma che anch’essa smentisce in pieno l’accusa di dogmatismo. Mi fermo con gli esempi perché penso che siano sufficienti.
Ciò che lei propone è tutt’altra cosa. Lei vorrebbe che gli anarchici, in quanto forza politica, al pari di Rifondazione, dei DS e di quant’altri, si presentassero alle elezioni per far sedere degli anarchici, come regolari parlamentari, negli scranni del parlamento. Quindi vorrebbe che nel suo programma politico l’anarchismo comprendesse la lotta parlamentare all’interno della democrazia rappresentativa.
È questo che non funziona. Per farlo, dovrebbero infatti presentare un programma di governo, accettare quindi la possibilità teorica di trovarsi nelle condizioni di gestire, con gli strumenti dello stato che dichiarano di voler abolire, l’attuale stato di cose. Ma siamo anarchici proprio perché non vogliamo un governo centrale che con la forza imponga le sue leggi all’insieme dei cittadini, o no? Con quale faccia e quale coerenza d’intenti propagandiamo una società altra che si autogestisca, senza poteri centralizzati dall’alto, e poi nei fatti partecipiamo alla torta del potere, perché se si va lassù, nel parlamento, volenti o nolenti siamo parte della torta contro la quale dichiariamo di lottare? Questo si, lo trovo veramente, oltre che incoerente, privo di senso politico pratico.
Per finire cito alcuni esempi illustri. Andrea Costa, Francesco Saverio Merlino, Pier Carlo Masini. Tutti e tre erano anarchici e poi, anche se in modi diversi e con diverse motivazioni, hanno optato per la tattica di usare anche il parlamento, proprio per sfruttare le possibilità democratiche ai fini dell’anarchismo e della rivoluzione sociale. Nel momento in cui hanno fatto questa scelta, di fatto hanno smesso, anche dichiaratamente, di essere anarchici. E non può che essere altrimenti. L’una cosa esclude, per principio e di fatto, l’altra.

Andrea Papi
(Forlì)

 

Anarchia e non violenza

Vorrei esporre un mio breve commento all’articolo pubblicato sul numero di febbraio dal titolo Antiviolenti sì nonviolenti no, di Andrea Papi. A mio avviso l’autore cade in un fraintendimento apparentemente sottile ma non di poco conto, specialmente da un punto di vista teorico, per quanto concerne il significato effettivo dell’etica nonviolenta. L’autore scrive: Il riferimento principale cui ispirarsi non è affatto quello etico, bensì lo scopo ultimo di fondo cui pervenire, cioè la società autogestita secondo i principi anarchici della libertà sociale, che diventa perciò il fondamento di un’etica conseguente.
Ecco le mie obiezioni:
la società sopraccitata rappresenta un semplice modello organizzativo? O è invece un modello di vita sociale animato, radicato, fondato, su principi etici? L’autore afferma il primato del progetto di società da cui deriverebbero poi i principi etici conseguenti. Questo a mio avviso non ha alcun senso, o almeno, se ha un senso, rappresenta un falso problema. I principi etici e la costruzione del progetto vanno di pari passo! Secondo il mio punto di vista sono momenti inscindibili! Parlo in pratica di un’etica attualizzata e pragmatica, non di principi ultimi e trascendentali che non trovano mai conferme nella realtà. A mio avviso questa mia posizione rileva un filo conduttore evidente tra etica-pratica nonviolenta e anarchica.
Andrea Papi inoltre evidenzia la differenza tra nonviolenza e anarchismo sulla base dell’uso che quest’ultimo farebbe della violenza come atto di legittima difesa. Questa posizione non è teoricamente fondata se consideriamo i principi etici e politici della nonviolenza (che non è pacifismo né non-violenza) espressi dai suoi massimi teorici. Penso a Gandhi che espresse parere favorevole all’entrata in guerra dell’Inghilterra e che ammise l’uso della violenza misurata come strumento estremo di autodifesa.
Grazie,
saludos.

Fabrizio
(Bologna)

 

Risposta a Fabrizio

Caro Fabrizio, non ho affatto affermato il primato del progetto di società sui principi etici, come mi attribuisci tu. E sono d’accordo con te che i principi etici e la costruzione del progetto vanno di pari passo! Ciò che ho affermato, invece, è che non si deve e non si può giudicare la validità della scelta di mezzi di lotta violenta tenendo conto solo dei principi etici di riferimento, in quanto non esiste una sola etica, ma più etiche, ognuna legata strettamente ad una visione esistenziale e filosofica di sé e del mondo. La società autogestita secondo i principi anarchici della libertà sociale, di cui scrivo, è un principio di riferimento per progettare, non un progetto, come mi attribuisci tu. E nelle mie intenzioni, almeno mi sembrava chiaro, non c’è nessuna sottovalutazione dell’etica, dal momento, fra l’altro, che ciò che ha sempre distinto gli anarchici è la preminenza dell’etica in politica, contrapposta alla visione, spesso in auge, di un maldigerito machiavellismo.
Inoltre mi è poco chiaro quello che mi sembra il tuo tentativo di semplificare il problema riducendolo ad un’unica contrapposizione teorica tra violenza e nonviolenza. Da quello che scrivi mi sembra che salti fuori che o esiste la violenza o esiste la nonviolenza. Come ogni altra semplificazione è astratta ed in genere serve a giustificare posizioni prestabilite. Come sempre non esistono mai solo due posizioni, il bianco ed il nero (fra l’altro nell’arcobaleno non esistono né l’uno né l’altro, ma la gamma delle sfumature che portano dall’uno all’altro), ma una pluralità, perché sia la realtà che la sua lettura sono complesse e problematiche.
Come si fa a dire che l’antiviolenza anarchica non ha senso in quanto differenziata dalla nonviolenza, come a dire che o è nonviolenta o è violenta. Gli anarchici si sono storicamente riconosciuti nell’insurrezione rivoluzionaria e per questo si sono scontrati teoricamente e di fatto con le posizioni nonviolente. A riprova il fatto che le tesi di un anarchico riconosciuto come Tolstoj, che fu fondatore della pratica nonviolenta e che fu fra l’altro maestro a Ghandi, furono rifiutate dal movimento anarchico internazionale perché rinnegavano e contrastavano la pratica insurrezionale in quanto violenta. La concessione ghandiana della violenza misurata come strumento estremo di autodifesa, che citi, non è equiparabile all’incitamento alla rivolta che ha sempre distinto l’anarchismo ed in cui ancora si riconosce.

Andrea Papi
(Forlì)

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Aurora e Paolo (Milano) ricordando Pio Turroni a 22 anni dalla sua scomparsa (7 aprile 1982) 500,00; Roberto Carloni (Roma) 20,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo) 30,00; Giampaolo Verdecchia (Firenze) 20,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo) 21,50; Silvio Gori (Bergamo) ricordando Egisto e Maria Gori, 30,00; Marco Parmigiani (Varese) 5,00; Rossella Frattini (Bernate Ticino) 10,00; Salvatore Piroddi (Arbatax) 10,00; Saverio Nicassio (Bologna) 20,00; Stefano Giaccone (Galles – Gran Bretagna) 20,00; Ugo Fortini (Signa) ricordando Milena Marè, 25,00; E.C. (Roma) 200,00; Adriano Paolella (Roma) 200,00; Enrico Posenato (Costalunga) 5,00; Franco Leggio (Ragusa) 5,00; Misato Toda (Tokyo – Giappone) 8,00.
Totale euro 1.129,50.

Abbonamenti sostenitori.
Alfredo Mazzucchelli (Carrara) 500,00; L.D. (Ancona) ricordando il suo meraviglioso compagno, 200,00; Renato Girometta (Vicobarone) ricordando Ivan Aiati e Pietro Di Paola, 100,00; Paolo Santorum (Arco) 100,00; Adriano Paolella (Roma) 100,00; Andrea Albertini (Merano) 100,00.
Totale euro 1.100,00.